Viaggio
poetico letterario attorno al pastore addormentato nel presepe.
Quella
di Eduardo, “te piace o presepio?”, non è l’unica domanda che
si può fare davanti al presepe.
È
il pastore indifferente, qualcuno mi rispondeva.
Forse
il presepe già conteneva il germe del suo oblio? No, nient’affatto.
Mi ci è voluto qualche anno e qualche chiacchierata con gli
artigiani di San Gregorio Armeno, tra i decumani napoletani, per
imparare che il pastore addormentato, Benino il suo nome, era ben
altro.
Nella
tradizione partenopea il giovane placido che dorme sogna il presepe.
La Natività e il caleidoscopico mondo che le vive intorno sarebbero
il sogno bello di Benino.
Sì,
il presepio mi piace, risponderei ad Eduardo.
E mi piace anche quest’idea che il presepe sia il sogno dell’uomo. Del sogno sappiamo tanto, non tutto, e non sempre ci fidiamo. Spesso sbagliando.
“Due
sono le porte dei sogni inconsistenti” cantava Omero nell’Odissea
tanti secoli fa.
Ma “una ha battenti di corno, l`altra d`avorio:
quelli che escono dal candido avorio avvolgono d`inganni la mente,
parole vane portando; quelli invece che fuoriescono dal lucido corno,
verità li incorona, se un mortale li vede”.
Rimeditando
il nostro giudizio sul sogno, rivediamo anche la considerazione che
abbiamo del presepio.
Il
pastore che sogna il Natale vagheggia qualcosa di illusorio?
Un
arcano enigma o una divina profezia?
Un
desiderio profondo o un’ossessione collettiva?
Forse
un ricordo lontano o un’intima realtà?
Solo
in quest’ultimo caso il presepe è esperienza di fede; in altri è
partecipe di diverse virtù: la speranza, l’amore;
al
contrario, nel primo caso il presepe si riduce a qualcosa di
evanescente, fatuo, accessorio se non avverso alla verità delle
cose.
Le
costruzioni oniriche che si presentano attraverso parole secondo
Omero ingannano.
Platone,
nella Repubblica, chiama sogno la tendenza a scambiare per uguali
cose tra loro solo simili.
Non
sono beffarde allucinazioni quelle che nel palazzo di Atlante
attirano e deludono gli eroi dell’Orlando Furioso di Ariosto?
Quando Shakespeare nella Tempesta dice che abbiamo la stessa natura dei
sogni
non vuol far certo un complimento all’uomo, alla sua costanza
e saldezza. E non è sempre implicito lo stigma dell’illusione nel
significato della parola sognare nelle nostre lingue moderne e
pragmatiche?
Per
chi la pensa così, Benino farebbe forse meglio a svegliarsi
piuttosto che star lì a confondere ciò che immagina con il vero.
Svegliate
Benino, smontate il presepe, dimenticate il Natale.
O
nel migliore dei casi, lasciate pure dormire quel naif di Benino,
trovate anche un angolino al presepe, ma lasciate comunque perdere il
Natale.
E
se il sonno di Benino rivelasse una soluzione ad un enigma?
O
una profezia?
Gli
antichi amavano i rompicapi e paradossi, nei sogni gli déi
suggerivano soluzioni, spesso ambigue.
Per
i Greci che per primi si cimentavano con il gran problema dell’essere
che è e del non essere che non è, la nascita in una capanna
dell’uomo da una vergine – del tutto dal nulla – per forza
dello spirito, sarebbe stata una risposta, o forse solo un’allegorica
risposta.
Un
altro racconto da decifrare.
Così
come da decifrare era il sogno del faraone, che i saggi d’Egitto
non comprendevano, e solo l’ebreo Giuseppe rivela nella sua verità.
Un
altro Giuseppe, il padre di Cristo, riceve dall’angelo in sogno il
messaggio profetico e rivelatore del suo destino e ci crede.
La
fiducia di Giuseppe nel suo sogno rende possibile la Natività.
Sogna
Benino, sogna, che con speranza crediamo di trovare nel tuo mondo
onirico qualche segno, qualche risposta che ci riveli la strada.
Sogna
Benino, c’è chi spera che il Natale si avveri.
Tra
la psicanalisi e il sacro c’è amore e contesa.
Per
Freud il sogno è appagamento dei desideri inconsci negati dalla
coscienza individuale.
Uno
stato ancora più profondo e magmatico dell’inconscio personale lo
esplora Jung: una coscienza collettiva in cui a produrre immagini è
la potenza di archetipi che prescindono dal tempo, dallo spazio,
dall’etnia, dalla lingua.
Ebbene
il presepe, se è sogno, è un desiderio realizzato.
E
anche un archetipo ritrovato e consolidato.
Benino
forza, anche l’arcigna scienza del profondo ti incoraggia.
Non
aver paura di desiderare l’amore che dà la vita.
Non
temere di appagare il tuo bisogno di rinascere e soprattutto di
rinascere ancora una volta uomo. Non è la natura nel suo complesso
che si rigenera nel presepe, ma la vita umana che rinasce vita umana.
Benino
sogna, che non uno, ma tanti uomini ancora si vergognano di ammettere
che un bambino, una madre, un padre, il lavoro utile, la casa
semplice, la natura regolata e la vita comunitaria siano una traccia
dell’amore che circola nel mondo.
Il
presepe dà segreta soddisfazione.
La
scienza antica, fin da Aristotele, sosteneva che nel sogno si
manifestassero le forze che avevano impressionato i sensi durante il
giorno e che ancora persistevano.
Benino
che fai? In fondo in fondo sogni ciò che hai vissuto: la tua di
nascita forse?
E
con te noi ricordiamo, senza ricordo, la nostra? Sarà questo che ci
rende così uguali nel tuo sogno. Per la scienza l’attività
onirica è fenomeno del sonno, ma ha radici nelle veglie e in esse si
prolunga fisiologicamente. È il nostro continuo essere che sogna. Da
questo suo punto di vista il sogno è cosa reale.
E
cosa reale sarebbe il presepe: una traccia di esperienza vissuta, un
pensiero a cui ubbidire anche quando si è tornati nella veglia.
Socrate, raccontato nel Fedone di Platone, lo dichiara solenne: “è
più prudente infatti non morire prima di aver coscienziosamente
fatto ciò che è da fare e ubbidito al sogno”.
Ma
solo così immanente può essere la realtà del sogno, e del presepe
nel sogno?
Possibile
che il sogno del pastore sia sentito come vero a più livelli?
Artemidoro,
il maggiore trattatista greco sul tema, distingueva i sogni dalla
visione onirica: i primi ci dicono ciò che accadrà, i secondi ciò
che esiste al momento.
È
possibile che queste due categorie coincidano?
In
altri termini, può essere il sogno di Benino non allegoria, non
simbolo, non racconto, bensì figura?
Figura,
termine usato dal critico Eric Auerbach per definire il viaggio della
Commedia dantesca, è la rappresentazione vera di una cosa
altrettanto vera in altro luogo e altro spazio.
Possiamo
credere che Benino davvero sogni un mondo tangibile e frangibile di
terracotta o cartapesta, che rappresenta tanto una verità storica di
2000 anni fa quanto una realtà metastorica che sempre si riafferma.
E
se il linguaggio che Dio usa per parlare nei sogni a Benino e noi non
fosse quello delle parole e immagini vane, ma quello scritto nella
carne che nasce, vive, sogna e muore?
La
prima verità del presepe sarebbe nel suo corpo fragile.
Se
Benino sogna l’Incarnazione nel presepio, è perché lì si svela
il codice di Dio, le cui lettere e parole sono gli uomini e le loro
azioni sulla scena del mondo.
Addormentarsi
nei panni pesanti di pastore e risvegliarsi uomo nudo e vero in
Cristo nella mangiatoia.
Chi
non ne avesse abbastanza provi a poggiarsi umile accanto a un
presepio, accanto a Benino.
Stefano
Colucci
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